ROMANO DE MARCO: IO LA TROVERO'

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Conobbi Romano De Marco in occasione di Lomellina in Giallo 2012, curata da Riccardo Sedini e, devo dire, di strada ne ha fatta parecchia! Lo intervistai in occasione dell’uscita del precedente romanzo “A casa del diavolo”, per Fanucci TimeCrime e l’ho rivisto mercoledì 22 gennaio in Feltrinelli, per l’uscita de “Io la troverò” – la serie Nero a Milano, Feltrinelli FoxCrime – con autori d’eccezione come Sergio Altieri e Andrea Pinketts, capitanati dall’intramontabile Luca Crovi (come farà a leggere così tanto e ricordarsi tutto a braccio?).
Insomma, Romano si è prestato alle fila di domande dei tre “moschettieri”, nonché alcune del pubblico, con molta naturalezza e presenza scenica, per così dire..Volete qualche anticipazione? Ebbene si, ho preso appunti:
Intanto si doveva intitolare “Vivere e morire a Milano”, in omaggio al film americano del 1985 “Vivere e morire a Los Angeles” diretto da William Friedkin e tratto dall’omonimo romanzo scritto dall’agente segreto Gerald Petievich. Poi è stato cambiato in “Io la troverò”, tutta farina del sacco di Romano, che ci tiene giustamente a sottolineare quanto la casa editrice lo abbia lasciato libero di decidere.
L’idea non è nata intorno a una storia, ma intorno a un sentimento: l’amore per i figli. Il racconto descrive alcuni personaggi alla ricerca di amore e di giustizia, che hanno fallito. Ma grazie alla forza dell’amore verso i figli, alla “condanna biologica”, vi è un riscatto delle situazioni. A questo, poi, ha fatto seguito la trama gialla, la quale ha dato credito alla storia.
Si descrive sapientemente il mondo dei barboni milanesi, fatto di miseria e di abbandono, si parla di amicizia, di droga. Si racconta una città come Milano senza filtri, senza edulcorazioni.
Il risultato è un romanzo che, appena uscito, ha già riscosso molti pareri positivi. Ci ritroveremo qui per leggere anche la mia recensione.
Nel frattempo, spero di avervi incuriositi abbastanza e vi lascio leggere la sinossi di Feltrinelli FoxCrime:
Era il miglior poliziotto di Milano. Ora, dieci anni dopo, Marco Tanzi è un clochard, un barbone che vive nei parchi e agli angoli delle strade, mimetizzandosi con il degrado di una città che non ha tempo per prestare attenzione agli sconfitti. Capelli lunghi, barba incolta, vestiti sporchi e scarpe infangate, dell’uomo di un tempo rimane ben poco: un gigante di un metro e novantotto che annega nell’alcol i suoi fallimenti. La sua discesa all’inferno lo ha portato ad abbandonare moglie e figlia, a tradire il suo ex collega ed ex migliore amico Luca Betti e a disonorare il distintivo, macchiandosi di reati che gli sono costati sette anni di carcere. Eppure, una sera, succede qualcosa. La figlia che Tanzi non vede da anni è scomparsa, inghiottita dal buio metropolitano. Betti rintraccia il vecchio collega per dargli la notizia, mettendo da parte gli antichi dissapori, e in quell’attimo nell’azzurro glaciale degli occhi di Tanzi passa un lampo, un barlume di umanità che riaffiora dal passato e sfugge al dominio delle ombre. D’un tratto, ha una missione: trovare la figlia. A ogni costo. Inizia così una caccia mortale che, in un crescendo di tensione e violenza, catapulterà lui e Betti nel giro del porno clandestino e della tratta delle bianche. Un mondo parallelo e sconosciuto ai più, nel quale solo chi ha già visto in faccia i propri incubi peggiori riesce a sopravvivere.
(recensione pubblicata su contorni di noir)

AURELIO PICCA: UN GIORNO DI GIOIA

Una favola realistica, un noir glamour sentimentale è questo ultimo avventuroso, intimo, spettacolare e struggente romanzo di Aurelio Picca, che torna al tema dei rapporti famigliari e in particolare figlio-madre, ma completamente trasformato rispetto a suoi precedenti libri come ‘Sacrocuore’ o ‘Tuttestelle’. C’è il belmondo anni ’50, inizio ’60, tra la Costa azzurra e l’Italia, ci sono le grandi auto, ma c’è anche una tigre, una pistola Beretta 6.35, oro e collane di diamanti, la morfina, una gabbia e un castello, che è in realtà un grande palazzo dalle cento stanze, che la vecchia nonna Normanna Polonsky del giovane Jean, protagonista e io narrante, ha lasciato ai suoi sette figli, tra i quali non scorre buon sangue e che sua madre, Tilda, vuole riscattare a qualsiasi costo dai fratelli, specie il terribile e avido Marcello, per tenerlo tutto per sé. Come chi oggi sfida la sorte rubando in un grande magazzino, così mamma Tilda sfuggiva la noia del suo facile e elegante vivere con gesti rischiosi e eclatanti, che un compagno troppo consenziente gli permette, sperando si calmi e riesca a essere in pace con se stessa. Solo che da quei gesti di destrezza sarà per lei quasi naturale passare ad altri ben più estremi, a truffe e poi rapine a mano armata, per metter insieme i soldi necessari a entrare in possesso del castello di famiglia. Ecco allora un bambino, innamorato della figura seducente della madre, che la segue e ne narra le gesta quasi senza rendersi conto di cosa stia accadendo, almeno sino a quando la madre, che lui pensava solo sua, non si innamora di un altro e poi ancora di un altro, un po’ usando e un po’ usata dagli uomini. Un racconto visionario, venato di una follia un po’ swing, in cui ogni cosa sembra possibile, se c’è una zia, Antonia, che fa la maitresse ed l’unica buona e ricca davvero, se i grandi coinvolgono il bimbo ignaro nei loro giochi erotici, se la mamma si fa di morfina davanti a lui ma brinda ”ai ricchi nell’anima”, se c’è chi in giardino tiene una grande tigre del Bengala. E allora che si corra verso un finale tragico, ma che per Jean è anche un po’ catartico, e alla fine il noir prevalga non stupisce il lettore. ”Mia madre è stata un dono, ma quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta, e questa frusta è predisposta unicamente per l’autoflagellazione”, afferma Jean, facendo di questa madre che rapina e ama, che respinge e attira, che vince e perde, appunto una madre emblematica, nella ambivalenza del rapporto che ha con un figlio. Come emblematico sarà il castello, con i suoi percorsi e incontri (da Teresa al vecchio guardiano De Mei), grazie a cui diventerà adulto, si farà uomo (”e un giorno potrò scrivere la storia che sto scrivendo”) e rinuncerà a girare anche lui con una pistola nella cintura, superata solitudine e rabbie che segnano la sua infanzia, sempre come in bilico tra realtà e fantasia. Ora affascinato, esaltato, geloso e furente, ma comunque ”di marmo, congelato a non capire che la vita è con te, ti grida: Evviva! ed è pronta a distruggerti. Con tua madre dentro”. Questo romanzo, che ha il realismo e la visionarietà di un film, che si snoda leggero e drammatico, inno alla vita che si autodistrugge, pare una favola, con i naturali tocchi di ingenuità dovuti all’età del narratore, e assieme è memoria trasfigurata dal ricordo di tante avventure e seduzioni, segnate tutte da una miriade di colori e profumi particolari, d’epoca, indicati tutti con grande precisione, come quando Jean disegna con gli ombretti rose tendre, pourpoure, bleu azur, beige cachemire, argent metallisé, iris e così via, parlando di fiori come di vestiti e ricordandoci gli odori del vetiver o del profumo Fleur de Rocaille, il Coty dolciastro o Arpege, sino a farne metafora: ”Lui aveva girato il mondo. Lei era un profumo pronto a evaporare dalla boccetta”. Insomma, una lettura leggera e piacevole, non superficiale, che di questi tempi è davvero una bella sorpresa.

ELISA CAMPIONI PARLA DI L'ULTIMA SCOMMESSA


Vorrei dire la mia, da semplice lettore. Dopo Mare Nero e Nessuno pensi male, se Gianni Paris pubblicasse l’elenco del telefono o la lista della spesa li leggerei E’ per questo credito illimitato che do alla sua scrittura che ho affrontato L’ultima scommessa, sebbene l’argomento “mondo del calcio” abbia per me la stessa importanza della cucina tartara dell’anno mille. Nessuna. 
Le volte precedenti, mi ero trovata catapultata in situazioni inconoscibili ai più, avevo provato emozioni forti e sorriso di qualche personaggio che, sebbene mariuolo, aveva un salvagente per stare a galla nella mia simpatia. Chi lo sa quale reazione intendeva provocare Paris, ma per me il Giorgio de L’ultima scommessa è il prototipo dell’antipatico socialmente nocivo. Indifendibile, ma sia subito chiaro, non perché ha truccato le partite, ma perché ha vissuto tenacemente fin dall’i nfanzia nel modo più funzionale per arrivare a farlo. 
Da piccolino idolatra un star - macchina da gol - poi si dedica al pallone più che a ogni altra attività da ragazzini, così cresce nel corpo ma non nel carattere; arrivato in squadra lascia che lo spogliatoio avvii la distruzione della morale personale . “Non si fanno sgarbi”, e lui capisce: non devo segnare. Diventa direttore sportivo, gli dicono “fai tu” per il bene delle casse della squadra e lui esegue il non esplicitato, alla faccia dell’etica. Sì, certo, poi si pente, confessa e si dispera, proprio come un Narciso stramazzato sott’ acqua a furia di specchiarvisi. 
Se esistesse solo lui, quel Giorgio, potrei anche averne compassione e rallegrarmi che il climatizzatore abbia fatto il botto! Ma il calcio, in quanto ubriacatura nazionale, esiste per la muta e mutua complicità di tanti “Giorgio in versione passiva” che inducono i “Giorgio in versione attiva” ad agire. 
L’esercito dei tifosi si sbraccia per le vittorie. Il bel gioco, la correttezza? Accessori. Giornalisti e commentatori, ben addentro a quel mondo e scafati, aspettano il momento di gongolare appena un procuratore fa saltare il tappo. Grasso che cola per l’industria dell’informazione. 
Gli amici e i parenti non vedono, non intuiscono, brancolano nel biancore dell’innocenza. Una sterminata genia d’idioti? 
Ah le mogli che s’accorgono d’essere infelici solamente dopo che il marito è sputtanato! E i “Pascucci” che non sapevano , oibò, che il loro direttore sportivo truccava le partite?
Son pochi i mestieri che si possono fare tutta la vita restando “uomini” , senza diventare pedine. Calcio, ma salendo un po’ più su, Politica. 
Chi ci sta dentro troppo a lungo alla fine somiglia a quegli ombrelloni da spiaggia dimenticati. Sporchi e laceri, non servono allo scopo utile e deturpano il paesaggio.
E’ strano aver letto un libro che l’autore dice d’esser d’altri, è un po’ quei gol di destrezza che lasciano sospettare, ma non vedere, il decisivo intervento di una manina. Magistrale. Da avvocato, direi!

PAOLA PRESCIUTTINI: TROTULA

Nei primi decenni dell’anno Mille la città di Salerno conobbe uno splendore economico e culturale, in  particolare prese forma la moderna medicina. In tale contesto nasce ed opera Trotula: un’infanzia felice fra la tata Iuzzella, conoscitrice di erbe, come molte popolane, e poi un precettore, Gerardo, che deve insegnarle filosofia, matematica e letteratura. Da adolescente quando la cuoca Carminella incinta partorisce sul pavimento della cucina, capisce il potere delle donne (nonostante l’amato precettore le dica che per gli eruditi la donna è solo origine di peccato e tentazione), e dimentica il rammarico per i divieti subiti  dopo l’infanzia essendo una femmina: “Non c’era libro o pensiero capace di eguagliare quel potere che Madre Natura aveva deciso di dare a quelle come me: alle donne”. Dopo la morte della  madre per il parto diventa  “smaniosa di sondare il mistero della salute, del sangue e della morte”: perciò – nel desiderio di capire cosa sia successo – ottiene di frequentare la Scuola di medicina, pur cercando di conoscere anche le guaritrici che usavano l’arte delle erbe e degli unguenti.
La storia di Trotula è anche un romanzo di formazione, una educazione di sé e uno sguardo al mondo. L’autrice la segue nella sua evoluzione, la incalza direi e la accompagna. Trotula, violentata in un momento di ubriachezza dal marito, che l’ama ma soffre per la sua superiorità, si stabilisce – con scandalo inaudito per l’epoca- rinunciando ad ogni privilegio nel quartiere giudaico di Salerno per curare tutti/e, ricchi e poveri, e va in giro con un solo servitore. Finisce per assistere le partorienti, e le rincresce essere considerata “poco più di una mammana” ma salva molte donne da una morte certa. Si trova a curare infezioni, insegna alle levatrici le norme igieniche, si confronta con studiosi arabi e normanni, interrogandosi sull’autopsia, allora proibita, e sulla chirurgia, applicata solo dagli ‘infedeli’ islamici di Avicenna.
Trotula parla dei rimedi per il controllo delle nascite e  riflette sulla sessualità delle donne. Si occupa della cura del corpo, perché la bellezza è il segno di un corpo sano in armonia con l’universo: insegna così alla cugina Adelberga la depilazione, ed in quella casa viene ascoltata e interrogata da molte marchese e contesse su come sbiancare i denti, e come “una donna sverginata” possa sembrare vergine. Il suo punto di vista mette in crisi la tradizione e le sacre scritture (“partorirai con dolore”), soprattutto perché vuole alleviare le sofferenze del parto ed evitare la morte: Dio – ritiene – non può aver creato niente d’imperfetto, sta agli umani capire i segreti del  corpo, augurandosi che un giorno la scienza possa essere del tutto libera dalla religione.
L’incontro di Presciuttini con Trotula (“Fa così la storia: ricopre i gesti di detriti, come il fiume” ) mi ricorda Anna Banti quando racconta di non riuscire a “liberarsi” di Artemisia, della sua “ostinazione a farsi ricordare”, e Christa Wolf che sente Medea chiamarla ad entrare “nel tempo di lei”. La tendenza della riscrittura del romanzo storico da parte di autrici – nel senso di un orizzonte condiviso, attento a figure di donne, al cui interno si esprimono esperienze e toni differenti  – in Italia risale a Bellonci e a Banti e si arricchisce nel tempo di altri nomi con sfumature e rivisitazioni diverse (come Pariani, La signora dei porci; Corti, L’ora di tutti; Rasy, L’ombra della luna; Dacia Maraini, Marianna Ucria; Cutrufelli, La donna che visse per un sogno):  una reinvenzione, se si considera che Orlando è per Anna Banti “romanzo storico per eccellenza”, perché la realtà consiste in un inseguirsi di motivi interiori, legati alla storia di un minuto o di una vita. Paola Presciuttini – che già in Comparse aveva ricreato una genealogia di donne della propria famiglia risalendo ai  primi del ‘900,  “una cordata di mule testarde”, e in un racconto del 2000 aveva narrato una pittrice del ‘500  – con Trotula dilata il tema di una Storia diversa raccontata da chi era stata cancellata. Se per il romanzo storico si è spesso discusso sulla necessità o meno della verisimiglianza linguistica,  l’autrice ha preferito, come racconta in un’intervista, dato che Trotula parlava in latino, studiare piuttosto il ritmo della lingua, la cosmologia del tempo, facendo ricerche sugli abiti e le case.
Come scrive Anna Banti, ogni romanzo “tessuto sui dati contradditori della condizione umana” e sugli “anonimi”, costruisce “il miglior modo di fare Storia”. Il romanzo storico, sostiene, fa un’opera proustiana sulla storia: infatti sgorga dal documento  storico, ma, rivisitato soggettivamente, trasfigura e ricrea la realtà, in una nuova misura di connivenza storico-letteraria.  Nella ricerca attenta di “passi perduti, segni labili che il tempo non ha raccolto” e che “additavano lacune da comare, rammendi da tessere” (Banti), Presciuttini  mette in luce il rapporto tra corpo e parola nel divenire donna nei tempi antichi: è un colloquio intenso con Trotula, e crea genealogia femminile, muovendosi fra il rigore  e l’emozione degli affetti.
Il punto di vista è mobile, perché le voci narranti si alternano, dando un quadro vivace del Medioveo, da Trotula stessa, al marito medico, alla tata analfabeta, al precettore, alla cugina, ed offre un’immersione nel passato che intreccia  – nella tensione narrativa – il senso della quotidianità e della interiorità con le idee dominanti e le vicende storico politiche. Così nell’invenzione poetica viene offerto spazio al tempo delle emozioni, dando corpo a qualcosa che si è come evaporato e perso nella Storia ufficiale.
Più che di una rivisitazione del romanzo storico preferirei parlare di scritture che effettuano un movimento critico verso la Storia ufficiale per introdurre la rugosità degli eventi e il sentire di donne, come cifra dell’alterità. Il romanzo perciò, pur partendo dal documento storico, trasfigura e ricrea la realtà, per cui il materiale d’archivio si fa avventura narrativa e umana, mettendo in risalto l’assenza e cercando di riportare la vita alla sua complessità. Così i fatti storici lievitano in quella zona d’ombra dell’interiorità dove la ‘verità’ si fa più inafferrabile, per raggiungere passioni e dolori altrimenti muti. E la distanza consente una più intensa riflessione anche sull’oggi, per il divenire donna.

PIER PAOLO GIANNUBIO: LO SGUARDO IMPURO



Lo sguardo impuroOttobre 2002. Mariano Cuter, ventottenne professore neoassunto, riceve dal suo collega e amico Pier una telefonata allarmante: nella sua scuola circola, in centinaia di riproduzioni, una fotografia sgranata che lo ritrae in un’esplicita scena erotica con due ragazzine.
La misteriosa foto-beffa sconvolge l’esistenza di Cuter, incendiato dal sospetto che si tratti di una cospirazione ai suoi danni in cui è coinvolto anche chi gli è più vicino.
Alla scrittura del presente, ai flashback e ai dialoghi interiori di Mariano fa da contrappunto la ricostruzione degli stessi fatti fornita da Pier ad alcuni anni di distanza, in un avvincente alternarsi di conferme, smentite e ribaltamenti di prospettiva, così che realtà e immaginazione prendono a fondersi in modo inestricabile, portando a galla grotteschi malintesi, conflitti esasperanti, irrisolti rancori personali.
Fantasmi familiari e paure ancestrali riemergono dal passato insieme all’ossessione da cui Mariano non si è mai emancipato. Ai due poli di questo tormento, il primo e unico amore di Cuter, Sula (sedicenne greca che ha bloccato la sua sessualità a un irripetibile momento di felicità adolescenziale), e Lorena, una delle due liceali protagoniste dello scatto. La perversa e anonima macchinazione ordita per screditarlo porterà Mariano a un’inevitabile discesa agli Inferi, resa ancor più drammatica dal terremoto che frattanto colpisce la sua città, trasformando la morte di ventisette bambini in un evento mediatico planetario.
Lo sguardo impuro è la cronistoria di una nemesi. Un’analisi impietosa del conflitto fra educazione cattolica e potenza del desiderio, delle meschinità all’interno del microcosmo scuola, dei piccoli e grandi segreti della provincia italiana, delle quotidiane menzogne e dei tradimenti praticati per sottrarsi al peso delle responsabilità. 
Pier Paolo Giannubilo è nato nel 1971 e vive a Campobasso, dove da molti anni insegna in un liceo e fa il giornalista. Dopo un libro di poesia, uno di racconti e un saggio, nel 2008 ha pubblicato con Il Maestrale Corpi estranei, uno sconvolgente romanzo-verità accolto con grande favore da critica e lettori.