AURELIO PICCA: UN GIORNO DI GIOIA



Una favola realistica, un noir glamour sentimentale è questo ultimo avventuroso, intimo, spettacolare e struggente romanzo di Aurelio Picca, che torna al tema dei rapporti famigliari e in particolare figlio-madre, ma completamente trasformato rispetto a suoi precedenti libri come ‘Sacrocuore’ o ‘Tuttestelle’. C’è il belmondo anni ’50, inizio ’60, tra la Costa azzurra e l’Italia, ci sono le grandi auto, ma c’è anche una tigre, una pistola Beretta 6.35, oro e collane di diamanti, la morfina, una gabbia e un castello, che è in realtà un grande palazzo dalle cento stanze, che la vecchia nonna Normanna Polonsky del giovane Jean, protagonista e io narrante, ha lasciato ai suoi sette figli, tra i quali non scorre buon sangue e che sua madre, Tilda, vuole riscattare a qualsiasi costo dai fratelli, specie il terribile e avido Marcello, per tenerlo tutto per sé. Come chi oggi sfida la sorte rubando in un grande magazzino, così mamma Tilda sfuggiva la noia del suo facile e elegante vivere con gesti rischiosi e eclatanti, che un compagno troppo consenziente gli permette, sperando si calmi e riesca a essere in pace con se stessa. Solo che da quei gesti di destrezza sarà per lei quasi naturale passare ad altri ben più estremi, a truffe e poi rapine a mano armata, per metter insieme i soldi necessari a entrare in possesso del castello di famiglia. Ecco allora un bambino, innamorato della figura seducente della madre, che la segue e ne narra le gesta quasi senza rendersi conto di cosa stia accadendo, almeno sino a quando la madre, che lui pensava solo sua, non si innamora di un altro e poi ancora di un altro, un po’ usando e un po’ usata dagli uomini. Un racconto visionario, venato di una follia un po’ swing, in cui ogni cosa sembra possibile, se c’è una zia, Antonia, che fa la maitresse ed l’unica buona e ricca davvero, se i grandi coinvolgono il bimbo ignaro nei loro giochi erotici, se la mamma si fa di morfina davanti a lui ma brinda ”ai ricchi nell’anima”, se c’è chi in giardino tiene una grande tigre del Bengala. E allora che si corra verso un finale tragico, ma che per Jean è anche un po’ catartico, e alla fine il noir prevalga non stupisce il lettore. ”Mia madre è stata un dono, ma quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta, e questa frusta è predisposta unicamente per l’autoflagellazione”, afferma Jean, facendo di questa madre che rapina e ama, che respinge e attira, che vince e perde, appunto una madre emblematica, nella ambivalenza del rapporto che ha con un figlio. Come emblematico sarà il castello, con i suoi percorsi e incontri (da Teresa al vecchio guardiano De Mei), grazie a cui diventerà adulto, si farà uomo (”e un giorno potrò scrivere la storia che sto scrivendo”) e rinuncerà a girare anche lui con una pistola nella cintura, superata solitudine e rabbie che segnano la sua infanzia, sempre come in bilico tra realtà e fantasia. Ora affascinato, esaltato, geloso e furente, ma comunque ”di marmo, congelato a non capire che la vita è con te, ti grida: Evviva! ed è pronta a distruggerti. Con tua madre dentro”. Questo romanzo, che ha il realismo e la visionarietà di un film, che si snoda leggero e drammatico, inno alla vita che si autodistrugge, pare una favola, con i naturali tocchi di ingenuità dovuti all’età del narratore, e assieme è memoria trasfigurata dal ricordo di tante avventure e seduzioni, segnate tutte da una miriade di colori e profumi particolari, d’epoca, indicati tutti con grande precisione, come quando Jean disegna con gli ombretti rose tendre, pourpoure, bleu azur, beige cachemire, argent metallisé, iris e così via, parlando di fiori come di vestiti e ricordandoci gli odori del vetiver o del profumo Fleur de Rocaille, il Coty dolciastro o Arpege, sino a farne metafora: ”Lui aveva girato il mondo. Lei era un profumo pronto a evaporare dalla boccetta”. Insomma, una lettura leggera e piacevole, non superficiale, che di questi tempi è davvero una bella sorpresa.

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